A lezione da Servillo - Jouvet: attori, diventate poesia vivente
Servizio di Anita Curci
"Il testo nasce da un'esperienza reale di lavoro, le lezioni sul Don Giovanni di Molière tenute da Luis Jouvet al Conservatoire di Parigi nel 1940 e da cui Brigitte Jaques ha tratto sette scene "fulminanti" che seguono il rapporto creativo fra il maestro/regista e la sua giovane allieva/attrice, attorno al ruolo di donna Elvira. Un percorso che da artistico e formativo si trasforma in una lettura del mondo, delle sue contraddizioni, della sua coscienza". Così Toni Servillo, attore e regista, presenta il suo spettacolo, Elvira da Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jaques, nuovamente in scena al Bellini di Napoli la prossima stagione, dall'8 al 20 gennaio 2018. Con lui sul palcoscenico, Petra Valentini, Francesco Marino, Davide Cirri.
Servillo, perché questa scelta oggi?
"Per tante ragioni, a cominciare da un debito di riconoscenza che sento verso questo gigante del teatro europeo. E' stato importante per me leggere e divulgare i suoi scritti. Sul mestiere dell'attore ricorrono luoghi comuni banali, se non volgari, legati a un'idea di talento come espressione generica di una capacità funambolica, che attiene ben poco all'interpretazione di un classico e di un personaggio. Servono, allora, una cultura personale e una disciplina, per mettere in discussione tutto questo. Gli attori devono sapere che quando si misurano con un testo, si confrontano con un materiale poetico e, dunque, devono diventare essi stessi poesia vivente".
Si può paragonare il nostro tempo con quello in cui, chiuso in un teatro mentre i nazisti si impadronivano della Francia, Jouvet impartiva lezioni a tre allievi?
"Mettere in scena oggi Elvira rappresenta una occasione di ecologia della mente, rimettere al posto giusto certi termini, dare un senso a certe parole e comportamenti della scena, come il sentimento, l'emozione, la lunghezza della frase, l'analisi del testo. La meravigliosa visione del personaggio, quando l'attrice riesce a concluderlo, sta nel fatto che in questo monologo non ci sono trucchi di scena, ma è lei stessa che deve dare il suo carattere 'improvviso stupefacente meraviglioso'. A me non interessava dimostrare come il maieuta riuscisse a far diventare l'attrice più brava, ma che emergesse il racconto di una passione violenta, che rapisce allieva e maestro, nonostante l'avvicinarsi dei nazisti. L'unico modo che essi hanno per opporsi è immergersi nel sentimento di Elvira, approfondendolo".
Che cosa insegnò e che cosa imparò lo stesso Jouvet? E che cosa oggi lei, attraverso lui, può far capire al pubblico?
"In Elvira c'è un rigore che tende alla poesia, e rigore e approfondimento tendono all'incandescenza. Sul piano formale, collegato all'arte del recitare, Jouvet dice che non è la recitazione a generare il sentimento, ma è il sentimento in cui è l'attore, in quel momento, a generare la recitazione. E io trovo necessario proporre la visione poetica di questo grande: il teatro è il luogo in cui si perde per ritrovarsi".
Perché la lezione si concentra sul secondo monologo di Donna Elvira nel Don Giovanni?
"Donna Elvira è una figura toccata da una grazia divina, una persona nella condizione di donarsi senza chiedere niente in cambio. Attraverso il suo monologo Jouvet propone una lettura del Don Giovanni, che è una commedia misteriosa: non a caso, sono rarissimi gli allestimenti riusciti del testo in prosa; c'è voluto il genio di Mozart, in un altro contesto, quello musicale, Jouvet ha messo il mistero di Don Giovanni col mistero della recitazione. Quando si rivolge agli allievi dice: 'Avrete imparato qualcosa il giorno in cui avrete la rivelazione interiore di ciò che siete in relazione a ciò che fate'... ecco, questa è vita; non solo mestiere, ma altissima azione morale".
Ha un significato particolare la tappa napoletana?
"Sì, ancor più se connesso al Teatro Bellini, che grazie alla passione dei giovani, a partire dai tre fratelli Russo che lo gestiscono, è oggi un riferimento culturale importante a Napoli e non solo".
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