“La ghianda e la spiga – Giuseppe Di Vagno e le origini del Fascismo”. Una storia di lotta e di riscatto sociale nel libro di Giovanni Capurso

 

di Silvana Campese




La storia del primo parlamentare italiano ucciso per le idee che professava è l’argomento principale del saggio di Giovanni Capurso
La ghianda e la spiga – Giuseppe Di Vagno e le origini del Fascismo, edizioni Progedit. Il protagonista nacque il 12 aprile del 1889 a Conversano, in Puglia, e morì assassinato il 26 settembre del 1921 a Mola di Bari. Fu un uomo la cui grandezza viene dall’autore mostrata in modo eccellente e senza alcuna retorica, attenendosi semplicemente ai fatti, quelli relativi alla vita del protagonista e quelli necessariamente collegati ad essa, sullo sfondo storico di un arco di tempo breve ma intensissimo ed alla loro narrazione in forma di saggio, quindi documentaristica e al tempo stesso densa di stimoli ideologici ed emozionali. Una narrazione coinvolgente e fedele della vita dell’avvocato, giornalista e deputato pugliese che, per di più, coincide e celebra il centenario della sua morte. Una biografia in veste di saggio, brillantemente in linea con quanto sinteticamente espresso da un altro scrittore, il genovese Lorenzo Licalzi, con un pensiero che non solo condivido per ciò che è ma che mi sembra riferibile in modo stupefacente alla vita e alla personalità del protagonista di questa storia e alla impegnativa scelta di Capurso: “Io credo che la grandezza degli uomini si misuri con la grandezza dei loro sogni e con la loro capacità di realizzarli, ma ci sono sogni così grandi che fanno grande un uomo solo per essere riuscito a pensarli e per aver provato a realizzarli. Uno di quei sogni per cui vale la pena di vivere è vivere una vita che vale la pena di essere raccontata”. È il caso di Giuseppe Di Vagno. Anche se a ‘sogni’ in questa storia meglio specificherei ‘ideali’.
Storia che viene ricostruita in modo tale da rendere il lettore testimone quasi ‘oculare’ della semina, del germoglio, dell’esplosione del suo pensiero, del suo mondo ideale e del suo credo politico. Infatti, la sua breve esistenza viene magistralmente narrata a partire dagli anni della formazione, lungo un percorso che lo vede bambino, quando “da quell’orizzonte annodava bei sogni di ragazzino pacato e riflessivo”, poi studente, già colmo del senso profondo e della fortissima esigenza di giustizia sociale, con il forte imprinting paterno, di quella tenacia per sempre impressa nell’animo e che lo nutrì di ideali nell’attività politica e a favore dei diseredati. Ben presto, fu preso dall’impegno pacifista e antimilitarista, perché era sempre forte l’impatto su di lui della
Storia (scritta poi dai vincitori) delle guerre, delle prepotenze, delle rivoluzioni... Fu molto coinvolto dall’assistenza agli sfollati durante la Grande Guerra e ancora infaticabile militante teso sempre ad ottenere l’unità del Partito socialista italiano. Negli anni della rivoluzione bolscevica con abilità proponeva alle piazze un socialismo ideale, “in grado di sovvertire quel senso di placido torpore e rassegnazione in cui era immobilizzato il Mezzogiorno”. Il percorso biografico, descritto in uno stile caratterizzato sul piano storico da precisione e scrupolosità oltre che da notevole accessibilità, non solo risulta pregno di contenuti e spunti di riflessione ma di fatto, con il suo libro, Capurso riesce ad inquadrare perfettamente il vissuto coraggioso e drammatico del parlamentare pugliese all’interno della genesi del Fascismo, come del resto il sottotitolo lascia ben intendere. La vita del protagonista si conclude proprio nel periodo in cui la dittatura fascista è ai suoi prodromi ed avanza in modo inquietante e già devastante la sua violenza: Peppino Di Vagno fu bersaglio di un attentato squadrista, a causa del quale si spense, lasciando la moglie in attesa di un bambino e l’anziana madre. “Una banda di fascisti della sua stessa città aveva abbattuto questa quercia che dava molta ombra alle loro ambizioni” riportava l’edizione parigina dell’ “Avanti!”, in piena dittatura. Il delitto Di Vagno fu il primo triste esempio dell’assassinio politico che diede il via ai delitti fascisti, i quali sarebbero culminati nell’omicidio Matteotti il 10 giugno 1924. Pur essendo quello di Di Vagno il primo brutale, cinico assassinio nella storia d’Italia di un parlamentare a causa delle idee che professava, passò in realtà quasi inosservato. Dal libro di Capurso apprendiamo che persino i deputati del suo Partito, lacerati dalle lotte tra correnti, non ne colsero pienamente la gravità e la portata. Né furono gli unici... In realtà la figura di Giuseppe Di Vagno è stata per molto tempo trascurata se non del tutto accantonata dalla storiografia. Quanto alla ingiustizia subita a livello processuale anche da morto, si è ripetuta ben due volte: sul primo processo i riflettori si spensero a pochi mesi dall’avvento del Fascismo senza aver fatto pienamente luce sulla vicenda e soprattutto senza che si identificassero i mandanti. Per di più il delitto fu ridimensionato al rango di conseguenza, effetto collaterale di banali contrasti tra gruppi locali da una parte della stampa e delle testimonianze dell’epoca, sulle quali ovviamente agiva la censura. La riapertura del processo fu fortemente voluta da un giovane Sandro Pertini e altri socialisti. La sentenza del 1922 che aveva sancito l’assoluzione di dodici imputati fu annullata ma alla fine del processo solo la metà di essi ebbe condanne, peraltro abbastanza lievi rispetto alla gravità dei fatti, mentre gli altri furono amnistiati. Quindi, la conclusione non fu all’altezza delle aspettative e le motivazioni di quella sentenza sommaria furono discutibili e deludenti. Per la seconda volta la vicenda del coraggioso socialista finiva per essere marginalizzata e resa evento secondario nella storia italiana. Fu solo nel 2001, grazie all’impegno della Fondazione che porta il suo nome ed al suo presidente, Gianvito Mastroleo, che Di Vaglio ha iniziato ad essere oggetto di ampio dibattito proprio per rivalutarne la portata storica. Anche il nostro autore, servendosi di una massiccia quantità di autorevoli fonti, ha inteso, con questo bel saggio, restituire al protagonista il ruolo che gli compete e metterne in luce la complessità e la bellezza dello spirito e del pensiero. Un grande socialista, un idealista certamente ma anche un realista o quanto meno un politico di notevole arguzia e intuizioni pragmatiche, incorrotto, tuttavia intelligentemente propenso al compromesso o, per meglio dire, alla mediazione da fine intellettuale con grande capacità di analisi della/e realtà e avendo sempre luminosi e chiari ideali e obiettivi ragionevolmente raggiungibili. In una realtà ostile, circondato da ambiguità e conflitti di vario genere. La sua è una storia di lotta e di riscatto sociale. Qualcuno disse che l’idealismo senza realismo è impotente ma il realismo senza idealismo è immorale... Penso anch’io che il realismo senza valori ideali ed etici facilmente tracima e diventa fango invasivo. D’altra parte, ogni idealista che ostinatamente perseveri nel non voler e non saper analizzare la realtà in modo realistico è destinato all’inadeguatezza e all’impotenza, quale che sia l’obiettivo che persegue. È la prassi delle utopie il sentiero da seguire, secondo me, nella vita individuale e collettiva. Il realismo di Di Vagno, il suo pragmatismo da bravo politico, anche se socialista ‘puro’, furono evidenti in varie occasioni. Per esempio quando “...rimase uno dei pochi, tra le élite intellettuali, convintamente fedeli al credo pacifista. I socialisti interventisti furono “i raggirati dalla Storia”, come dirà in maniera delicata, ma efficace, l’esperto leader riformista Filippo Turati. Di Vagno non si fece a sua volta raggirare e tenne la barra del timone dritta sulla sua scelta. Non gli sfuggiva, infatti, che dietro l’apparente nobile interesse per la patria si nascondeva l’avidità dei “pescicani di guerra”, ovvero di quei grandi gruppi industriali che vedevano nel conflitto una straordinaria occasione di fare grandi profitti”. “Pescicani di guerra” è una citazione tratta proprio da Scritti e Interventi 1914-1921 dello stesso Di Vagno dove affronta La crisi degli approvvigionamenti, “L’Oriente” del 2 settembre 1917. Settimanale in cui pubblicò parte dei suoi accesi interventi antimilitaristi. Il settimanale L’Oriente era diretto dal battagliero avvocato Alfredo Violante e Giuseppe vi scrisse con lo pseudonimo di Enjolras che, nel romanzo di Victor Hugo, I Miserabili, è il leader degli amici dell’ABC, gruppo di studenti universitari rivoluzionari. Il suo motto era “Patria o morte!”. Anche Violante ebbe un tragico destino a causa della persecuzione fascista. Fu catturato per la sua partecipazione alla Resistenza e venne deportato. Finì anch’egli ucciso, ma in una camera a gas il 24 aprile 1945 a Mauthausen, il giorno prima della Liberazione. Altro pseudonimo come giornalista fu Marco Polo della Luna, in particolare quando si rivolse ai “socialisti rivoluzionari dell’ultim’ora” abbagliati dalle sirene che provenivano dalla Russia rivoluzionaria. Sulla spinta ideologica della Internazionale comunista la parte più a sinistra del Partito andò a costituire (dopo il Congresso di Livorno nel gennaio 1921) il Partito Comunista Italiano. Fu “l’atto notarile” di una scissione che era già nei fatti. Molti anni dopo, Gramsci collegò l’ascesa del Fascismo alla scissione tra socialisti e comunisti e quindi diede indirettamente ragione ai riformisti e a uomini come Di Vagno che si erano battuti per l’unità delle correnti.
Dopo quanto premesso, a seguito della lettura del testo, mi collego ben volentieri alla prima sensazione di quando l’ho appena iniziata e nella seconda di copertina, sotto lo stralcio della lettera alla sua cara Rosetta, la nipote, dal penitenziario di Sassari ove nel luglio del 1918 Di Vagno era “internato” per la seconda volta (la prima a Firenze tra il 1916 e il 1917 a causa delle sue posizioni di aperto antimilitarismo), leggevo il quesito di Alfredo Violante, che fu anche il suo primo biografo. Egli si chiede se Giuseppe fu un socialista. Risponde di sì precisando che “possiamo definirlo un cervello borghese in un’anima socialista”. Per me già questo primo accenno alla dimensione socio-familiare di origine e formazione di un appassionato socialista, ha significato un secondo tassello di pietra preziosa in quanto ‘coincidenza e connessione identitarie’, per così dire... Tassello da incastonare nel puzzle che avrei a mano a mano riempito e completato a fine lettura. Non ho mai rinnegato per dogmatismo ideologico le origini borghesi, dalle quali ho ereditato un sano realismo. Per di più già all’inizio degli studi di Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, ebbi vari docenti socialisti, del calibro dell’onorevole giurista Francesco De Martino, più volte segretario del Partito Socialista Italiano e due volte Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nei governi Rumor e Colombo. Mi sentii quindi ancora più fortemente orientata verso l’ideologia socialista che già mi era familiare per essere mio padre un uomo di sinistra, diversamente da mia madre, nostalgica soprattutto della monarchia e cattolica. Ma perché ho scritto secondo tassello? Perché il primo è stato quello centrale, ovvero il titolo. Ora so che esso riprende l’ultimo articolo di Di Vagno, intitolato La fiaba del grano (riportata nel testo) e che intende racchiudere l’essenza degli ideali di Giuseppe. Più precisamente, la ghianda è ciò che rimane al contadino dopo il pesante lavoro quotidiano mentre la spiga è destinata a chi gode, senza alcuna fatica, del frutto del sacrificio altrui. Dunque, non simboli ma cose e di evidente concretezza pratica, per così dire. Viceversa, non avendo io ancora acquisito le informazioni giuste in proposito, il titolo determinò subito in me un forte collegamento con altre dimensioni, decisamente simboliche: la teoria della ghianda nel meraviglioso libro di James Hillman “Il Codice dell’anima” che si ispira al mito platonico di Er, per cui l’anima di ciascuna/o di noi sceglie un “compagno segreto” (daimon lo chiamavano i greci, genius i latini, angelo custode i cristiani) che ci guida sul cammino terreno. La teoria della ghianda dice che esiste una immagine individuale che appartiene all’anima di ognuna/o e questo stesso mito esiste nella Kabalah, oltre che presso i mormoni. Quanto alla spiga di grano è emblema della primavera, del risveglio della natura, che vince il buio e l’immobilità dell’inverno e dunque la morte (mito di Proserpina, versione romana della dea greca Persefone o Kore). Una volta acquisite le informazioni sul titolo non mi sono demotivata né rassegnata, anzi ho affrontato la lettura con la curiosità e la voglia di riscontrare in qualche modo non troppo forzoso la sua adattabilità anche alla mia intuizione/emozione. Penso che sia possibile: il libro di Hillman ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la teoria della ghianda, cioè l’idea che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. Il Peppino bambino ha nell’animo il seme della quercia che sarà... Bisogna prestare particolare attenzione all’infanzia perché in essa si possono cogliere già i primi segni del ‘daimon’ all’opera. Le conseguenze ‘pratiche’ vengono da sé, ci dice Hillman, a cominciare dalla chiamata che i più fortunati hanno la possibilità di sentire. Cioè una sorta di vocazione, che consentirà di allineare la propria vita nel modo giusto, seguendo cioè quello che popolarmente viene definito ‘segno del destino’. Quanto alla spiga, non è forse vero che la morte del giovane socialista, rimasta a lungo nei meandri delle storie piuttosto che nelle più significative pagine della Storia insieme agli eventi che ne determinano i percorsi, fu a sua volta come un seme tra le pieghe del terreno in attesa di germogliare? Appunto a mo’ di spiga?! Quando cioè la forza della verità e del libero pensiero avrebbe vinto il buio della ragione... Così anche il delitto del “gigante buono”, come lo definì per la prima volta il fondatore del socialismo italiano Filippo Turati, è diventato quel che nel seme/passaggio in ombra è sempre stato: un fatto centrale nella genesi del Fascismo. E c’è chi sostiene che senza quel delitto, molto probabilmente la storia italiana di quegli anni avrebbe avuto sviluppi diversi.



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