“UN GIORNO, O L’ALTRO” di Tommaso Borrelli


di Antonio Tedesco

La carriera di un libertino? O quella di un intellettuale deluso. O forse entrambe che si sovrappongono, l’una a compensare l’altra.
Una storia “normale” di aspirazioni che svaniscono alla prova dei fatti, di potenzialità che non trovano la via per esprimere pienamente se stesse, per dispiegarsi oltre i desideri, nella pratica concreta, per superare la fumosità delle intenzioni e diventare vita vissuta.
Un gesto mancato, la cui consapevolezza genera nell’io narrante di questo romanzo di fluida lettura, scritto da Tommaso Borrelli e intitolato programmaticamente Un giorno, o l’altro (Kairòs Edizioni – pp.220, € 15), qualcosa di più che una vaga amarezza di fondo. Un tangibile e concreto sentimento di delusione che sembra impregnare ogni azione e ogni gesto della sua vita. Emerge così un senso di inadeguatezza verso le proprie stesse originarie pulsioni giovanili, quando nella fase di formazione aveva conosciuto e sfiorato il mondo dell’arte e del teatro (ma forse sarebbe più giusto dire il suo sottobosco) vagheggiando, con la romantica ingenuità dei vent’anni, un suo decisivo futuro contributo allo “stato dell’arte”. Incoraggiato in questo suo proposito dalla frequentazione di un carismatico docente universitario e di una giovane, anticonformista e talentuosa studentessa. Questo vuoto che si apre nella vita del narratore, sposato senza entusiasmo ad una “brava ragazza” e, con ancor meno passione, avviato ad una mediocre carriera di insegnante presso un istituto professionale di provincia, viene colmato da altrettanto precarie relazioni amorose extraconiugali e avventure erotico-sessuali, vissute, però, sempre con un certo distacco, a distanza di sicurezza emotiva. Osservandosi vivere e giudicando continuamente le sue azioni e le sue scelte, e reprimendo costantemente quell’abbandono che forse sarebbe stato necessario anche per realizzare pienamente le sue originarie aspirazioni. Quella necessità, quel desiderio di arte e di cultura che il protagonista non smette mai di rievocare, di rimpiangere, per certi versi di ostentare quasi con compiacimento, come vagheggiando una sorta di paradiso perduto dentro i meandri della sua stessa esistenza.
È questo lo spirito che pervade il libro (che la quarta di copertina definisce “ampiamente autobiografico”), esprimendosi, però, in una carrellata a volte troppo rapida di fatti, situazioni, personaggi, che, in qualche caso, avrebbero richiesto più dettagli e approfondimenti maggiori, per uscire dai limiti di una pur vivida “istantanea” e assumere contorni più definiti e concreti. È come se la scrittura “mimasse” la difficoltà stessa del protagonista di immergersi, di lasciarsi andare oltre la superficie un po’ patinata e prevedibile degli eventi, di coglierne l’essenza e rendere concrete le sue aspirazioni (e la narrazione di queste) condannando se stesso ad inseguire un desiderio di riscatto, il miraggio di “un’altra” vita, ma senza avere la forza, e forse la volontà, di afferrarla veramente.
Così come lo sguardo impietoso sul mondo circostante, colleghi di lavoro, studenti, gente comune, ma anche esponenti di quel piccolo mondo di “arte & cultura” da lui un tempo sfiorato, perduti, ognuno a suo modo, nel “luogo comune” della contemporaneità, è come uno scudo che l’io narrante del libro alza a difesa della propria alterità. Un’alterità che egli stesso percepisce come sintomo e segno di una subdola e latente impotenza intellettuale.

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